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«… la mia teoria generale è che la Parola sia in tutto e per tutto un virus non ancora riconosciuto come tale poiché ha raggiunto con il suo ospite umano uno stato relativamente stabile di simbiosi: ossia, il Virus della Parola (l’Altra Metà) si è confermato come parte accettata dell’organismo umano al punto che ora può ridersela dei virus delinquenti come il vaiolo e consegnarli all’Istituto Pasteur. Ma la Parola chiaramente reca con sé l’unica caratteristica distintiva di ogni virus: è un organismo senza alcuna funzione interna se non quella di replicarsi». William S. Burroughs, “La calcolatrice meccanica” Introduzione di James Grauerholz Traduzione di Andrew Tanzi Da oggi in libreria. #WilliamBurroughs #LaCalcolatriceMeccanica #adelphiedizioni
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1 giorno fa
«Forse è ingiusto dire che in Hemingway non c’è nulla se non Hemingway, ma è proprio così che la penso. Non è esattamente una critica, perché era quello che Hemingway faceva. Hemingway aveva uno stile così caratteristico che ci è rimasto intrappolato dentro per sempre. Tuttavia penso che Hemingway sia arrivato più vicino a scrivere se stesso nel tempo presente, più vicino a scrivere la sua vita e la sua morte, di qualsiasi altro scrittore. Naturalmente Mishima scrisse a proposito dell’”harakiri” per poi attuarlo. Un giallista francese scrisse: “Poi attraversò la stanza, aprì la finestra e si gettò nel vuoto”. Dopo aver scritto queste righe, attraversò la stanza, aprì la finestra e si gettò nel vuoto. Be’, questo è barare. Voglio dire, Hemingway scrisse la sua morte come personaggio, non come attore. La differenza è che chiunque può scrivere “E poi si sparò” e poi spararsi, se è pronto a farlo. Sto parlando di qualcuno che scrive “E poi gli spararono” e riceve lui stesso uno sparo da qualcun altro. È questo il trucco». William S. Burroughs, “La calcolatrice meccanica” Introduzione di James Grauerholz Traduzione di Andrew Tanzi Da oggi in libreria. #WilliamBurroughs #LaCalcolatriceMeccanica #adelphiedizioni
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1 giorno fa
«Gli scrittori sono tutti morti e tutta la scrittura è postuma». Nessun altro, eccet­to Burroughs, avrebbe osato proclamarlo, ed è soltanto una delle affermazioni para­dossali e dissacranti che costellano i saggi qui raccolti, estratti dallo sciame meteorico che, durante una mitica stagione, inve­stì le pagine delle riviste internazionali, letterarie e non. Burroughs porta il letto­re oltre i cordoni della polizia militare fino al cancello di aree classificate «top se­cret», e gli fa intravedere cose insospetta­te, di bruciante attualità, quali il control­lo della mente – con ogni mezzo legale o il­legale – da parte di politici, scienziati, gior­nalisti, medici, santoni e altri spacciatori, la parola come virus, la scrittura come tec­nica e magia, all’occorrenza nera. Con il suo humour vitreo composto in egual mi­sura di lucidità e follia, rude buonsenso e visionarietà, e oltraggi a ripetizione, ci por­ge scampoli fulgenti di «atroce presunzio­ne». Insegna la lettura creativa. Libera la mente dalla sudditanza e dall’assuefazio­ne a ogni conformismo. Condisce invetti­ve, dissezioni e profezie con raccontini ad hoc, sconci e spassosi. E intanto disegna u­na singolare, illuminante galleria di autori letti, incontrati, amati, detestati: da Kerouac a Beckett, da Graham Greene a Conrad, da Fitzgerald a Hemingway, da Maugham a Proust. Leggerlo è fare un corso accele­rato di disintossicazione dall’acquiescen­za agli zelanti manipolatori del Potere. Burroughs ha scritto la sceneggiatura del film che chiamiamo realtà. Peccato sia la nostra. William S. Burroughs, “La calcolatrice meccanica” Introduzione di James Grauerholz Traduzione di Andrew Tanzi Da oggi in libreria. #WilliamBurroughs #LaCalcolatriceMeccanica #adelphiedizioni
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1 giorno fa
Isako ha un piano audace, meticoloso: sbarazzarsi nel giro di tre anni dell’anziano marito, Nobuhiro, che con le sue invenzioni ha fatto la fortuna della S. Optics, e impadronirsi di tutto ciò che possiede. Certo, può contare sul fatto che Nobuhiro è fragile di cuore, ma deve prima estorcergli un testamento che escluda le due figlie che lui ha avuto da un precedente matrimonio. Sesso e denaro: nient’altro conta per Isako. Seducente com’è, del resto, non ha problemi a manipolare gli uomini: dal marito, che la ama con senile devozione, al giovane che si porta a letto, il fascinoso Kanji, all’ex amante Shiotsuki – nipote di un alto papavero del Partito conservatore –, di cui sfrutta le influenti relazioni. Per Isako, in fondo, non sono che strumenti, sacrificabili. Difatti, quando Kanji viene accusato di aver picchiato a morte la donna con la quale viveva, pur di non essere coinvolta non esita a chiedere all’avvocato difensore – che lei stessa ha ingaggiato con l’aiuto di Shiotsuki – di farlo condannare. Anche l’avvocato, Saeki, non saprà d’altro canto resisterle a lungo. C’è però un nemico invisibile che nessuno può sgominare, il solo in grado di sventare le più gelide macchinazioni: il caso, di cui il finale svelerà la sbalorditiva incarnazione. Ritratto memorabile di una dark lady dalla sconfinata cupidigia, “L’attesa” è come sempre anche il ritratto di una società – quella del Giappone dei primi anni Settanta – asservita al profitto e affetta da una temibile astenia etica. E la prova lampante di come il noir, nelle mani di un grande scrittore, possa diventare specchio del mondo. Matsumoto Seichō, “L’attesa” Traduzione di Gala Maria Follaco Da domani in libreria. #MatsumotoSeichō #Lattesa #adelphiedizioni
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2 giorni fa
«Isako si voltò di nuovo sotto le coperte, prese le sigarette sul comodino, ne accese una e diede una boccata prima di porgerla a Saeki. Il fumo, che fluttuava nella luce fioca della lampada, si levò anche nello specchio sulla parete opposta. Dal letto riuscivano a vederne il riflesso. “Verrò a casa tua” disse Saeki togliendosi la sigaretta dalla bocca. “E così finirò per aiutarti”. Isako capì subito a quale tipo di aiuto si riferisse, e i suoi occhi, nascosti sotto una ciocca di capelli, si illuminarono». Matsumoto Seichō, “L’attesa” Traduzione di Gala Maria Follaco Nell’immagine: Fotografia tratta da “An Album: The Everlasting Story” di Shōji Ueda - dettaglio. Da domani in libreria. #MatsumotoSeichō #Lattesa #adelphiedizioni
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2 giorni fa
«Perché aveva deciso proprio adesso di scrivere la sua autobiografia? Sembrava molto determinato. Nobuhiro si strofinò gli occhi come se fosse stanco, forse perché si era appena tolto gli occhiali. Isako aveva la sensazione che non sarebbe vissuto ancora a lungo. Anche il dorso della sua mano appariva sempre più raggrinzito. Isako pensava sempre, a ogni occasione, alla differenza di età tra lei e Nobuhiro. Era più giovane di trent’anni, certo, ma se il marito avesse avuto una vita lunga, anche lei sarebbe invecchiata insieme a lui, e le sue prospettive future si sarebbero ristrette. Ma sarebbe stato un problema anche se lui fosse morto troppo presto: per lei tre anni sarebbero stati l’ideale. In quel tempo avrebbe potuto divertirsi, pianificare il futuro e godere di ogni privilegio. Quindi doveva mantenerlo in vita all’incirca per altri tre anni. Perciò avrebbe tollerato qualche sua piccola debolezza, come per esempio quella storia dell’autobiografia, considerandola alla stregua di un integratore alimentare. E a ben guardare, lei ci avrebbe guadagnato del tempo libero». Matsumoto Seichō, “L’attesa” Traduzione di Gala Maria Follaco Nell’immagine: Fotografia tratta da “An Album: The Everlasting Story” di Shōji Ueda - dettaglio. Da domani in libreria. #MatsumotoSeichō #Lattesa #adelphiedizioni
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2 giorni fa
«Quella notte mi sono addormentato di colpo, ero esausto. L’anno scolastico era finito, era arrivato il caldo, al liceo non avevo più niente da fare. La mattina dopo sono rimasto a letto fino a mezzogiorno. Era la prima volta in vita mia. Al mattino, mentre ero a letto, mi sono reso conto che non avevo nessuno. Al mondo non c’era nessuno che condividesse qualcosa con me, non c’era nessuno a cui io volessi bene. Può darsi che esistano altre persone che si trovano nella stessa situazione. Dovevo avere anche la febbre. Mi è venuto in mente questo taccuino, e sono andato a cercarlo in fondo all’armadio, in mezzo ai vecchi libri. L’ho letto per due giorni, senza uscire di casa. Nel frattempo ho pensato di andare da un medico. Non ero mai stato malato, e una strana forma di ripugnanza, o forse di pudore, di viltà, mi ha sempre impedito di parlare con chicchessia di questioni riguardanti la mia sfera fisica. Da molto tempo, da più di quindici anni, vivo in assoluta solitudine. Non ho confidenza con nessuna delle persone che conosco. Nei miei contatti con gli altri utilizzo un codice prestabilito, una specie di prontuario di frasi fatte. Buongiorno, i miei rispetti. Bella giornata. In che mondo viviamo! Ha sentito? Viene al circolo stasera? Il ragazzo fa progressi. Mi spiace dirle che il ragazzo non si applica. Il conto, per favore. Arrivederci. Dimmi pure. A volerlo fare, sarei in grado di quantificare con esattezza il numero di parole che pronuncio in un anno». Sándor Márai, “Bébi, il primo amore” Traduzione di Laura Sgarioto Nell’immagine: Sándor Márai. #SándorMárai #BébiIlPrimoAmore #adelphiedizioni
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5 giorni fa
«A ben vedere, nella mia vita non è suc­cesso nulla» annota nel suo diario il prota­gonista, e narratore, di questo romanzo: un professore di latino poco più che cin­quantenne, celibe, alieno da qualunque sentimento nei confronti dei propri simi­li, maniacalmente attaccato a una routine fatta di lezioni, passeggiate, serate al circo­lo, rare visite a una casa di tolleranza. Ma durante un soggiorno alle pendici dei monti Tátra qualcosa si incrina, nel suo corpo e nella sua mente: si accorge di esse­re triste, «costantemente in attesa di qual­cosa», al punto da confidarsi, quasi con­tro la propria volontà, con uno sconosciu­to per il quale sembrava provare solo ripu­gnanza. La crepa non farà che allargar­si quando gli verrà assegnata una classe dell’ultimo anno – e per di più una classe in cui sono presenti sei ragazze. Con raffinatissima, pressoché diabolica abilità Má­rai ci fa percepire, attraverso le parole stes­se del professore, i cambiamenti che av­vengono in lui allorché scopre che due dei suoi allievi stanno vivendo il primo amore – un primo amore che, sebbene sia incapa­ce di ammetterlo, forse sta sperimentan­do anche lui. E quando lo vedremo comprarsi un abito nuovo, tagliarsi la barba, accettare perfino che il barbiere gli fac­cia dei massaggi per cancellare le rughe, sapremo che, come accade a von Aschen­bach nella Morte a Venezia, il baratro che gli si è spalancato davanti non potrà che in­ghiottirlo. Appena ventottenne e al suo primo romanzo, Márai si rivela un acutis­simo indagatore d’anime, e un magistrale narratore. Sándor Márai, “Bébi, il primo amore” Traduzione di Laura Sgarioto #SándorMárai #BébiIlPrimoAmore #adelphiedizioni
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5 giorni fa
«Mi trovavo davanti a una forza sconosciuta, perturbatrice, che agiva nella mia vita e alla quale non potevo opporre resistenza. Per molto tempo non si ha idea di cosa si tratti. Di solito si dice che è l’inizio della vecchiaia. Ma non era la conseguenza di qualcosa. Non ero malato, non conducevo una vita sregolata; il giorno prima non avevo niente, e adesso mi svegliavo mezz’ora più tardi e dimenticavo a casa il libretto. Che cosa mi era successo? Quando era successo? Di giorno non percepivo cambiamenti. Sarà forse che queste cose accadono nel sonno? E da dove comincia? Dalle gambe o dalla testa? Dalle mani o dai capelli? È qualcosa di inafferrabile». Sándor Márai, “Bébi, il primo amore” Traduzione di Laura Sgarioto Nell’immagine: Alfred Stieglitz, “Miss R (Miss S.R.)”, 1904 - dettaglio #SándorMárai #BébiIlPrimoAmore #adelphiedizioni
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5 giorni fa
«Durante la guerra, è stato ripetutamente colpito da lanciarazzi e armi leggere. “Armi di piccolo calibro,” spiega Tabet “perché a sparare erano i nostri vicini”. Il fascino del posto deriva in parte proprio dal fatto di essere sopravvissuto alla guerra. “Odio essere sobrio” continua Tabet, versandomi sette o otto bicchieri di porto. “È una condizione che mi irrita, come sono sicuro che irriti anche lei. Se per tutti questi anni fossi stato sobrio, oggi non sarei qui”. E nel seminterrato di questa casa, che una volta era dei bisnonni di Tabet, lavora il barman più famoso di Beirut: Johnny Khouris. È a lui che bisogna rivolgersi quando si vuole un Martini dry ben fatto. Nessun altro è all’altezza. E così scorrono le serate sotto le volte di pietra scheggiata che sembrano fatte di gesso, tra gatti domestici e uomini che sul viso e nei gesti portano ancora le tracce di quella guerra lontana. L’alcol, mi chiedo mentre sto seduto lì, è una sostanza che separa la coscienza dalla vera sé stessa, e quindi dagli altri? Se è così, vuol dire che passiamo tutta la vita in uno stato di impercettibile falsità. Ma l’alcol crea la maschera oppure la strappa via?». Lawrence Osborne, “Santi e bevitori - Un viaggio alcolico in terre astemie” Traduzione di Mariagrazia Gini Nell’immagine: William Eggleston - “Untitled (Cocktail on a plane)”, 1978 #LawrenceOsborne #SantieBevitori #adelphiedizioni
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6 giorni fa
«Le sei e dieci. Lo bevo piano, a letto, e dopo un po’ dalla strada sale l’aria della sera, con quel sapore di alberi centenari, fumo di narghilè e, chissà per quale ragione, popcorn al burro. Brindo in silenzio a mia madre, le sarebbe piaciuto bere con me in quella camera buia, con il suo odore di muffa e le persiane mezze staccate dai cardini. Non si finisce mai al punto di partenza, e in quei due anni di bevute in paesi che per lunga tradizione hanno bandito i piaceri corrosivi dell’alcol ho imparato ad amare il mio drink delle sei e dieci più di ogni altra cosa del mondo inanimato. Lo apprezzo più qui che altrove proprio perché qui il suo enigma è più fragile, più lucidamente disprezzato e temuto. Le ragioni per odiarlo sono tutte valide. Ma allo stesso tempo sono ragioni inconsistenti. Perché in fondo l’alcol siamo noi, la nostra vera natura che si manifesta. Reprimerlo è reprimere qualcosa che sappiamo di noi, ma che non siamo in grado di esaltare e neanche di accettare. È come avere un compagno di ballo a cui non ci sentiamo di affidare il portafoglio». Lawrence Osborne, “Santi e bevitori - Un viaggio alcolico in terre astemie” Traduzione di Mariagrazia Gini Nell’immagine: Lawrence Osborne in uno scatto di Chris Wise. #LawrenceOsborne #SantieBevitori #adelphiedizioni
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6 giorni fa
Per curare l’alcolismo c’è chi si fa ricovera­re in una struttura specializzata, chi si affida a una terapia farmacologica, chi anco­ra pratica una ferrea astinenza. Lawrence Osborne ha una ricetta più originale: in­traprendere un viaggio nel mondo islamico per studiare come vivono gli astemi e scoprire se da loro si può imparare qual­cosa. L’esperienza sarà illuminante, teme­raria e – per la gioia di noi lettori – sempre irresistibilmente spassosa. Accompagneremo Osborne a caccia di una birra a Sura­ karta, presidio indonesiano di al-­Qaida, dove, sotto un ritratto di Osama bin Laden, un gruppo di studenti biancovestiti cer­cherà di convincerlo che l’alcol è «una ma­lattia dell’anima». A Mascate lo seguire­mo nell’affannosa ricerca di una bottiglia di champagne per brindare al nuovo an­no, mentre la sua vita di coppia sperimen­ta impreviste dinamiche dettate dalla so­brietà forzata. E trepideremo per lui a Isla­mabad, quando si lancerà nella sconside­rata «avventura culturale» di ubriacarsi «in uno dei paesi più pericolosi e ostili al­l’alcol» della terra. Ma, davanti a un bic­chiere, tutto il mondo è incline al parados­so: prova ne sono le cosiddette “dry towns” del New Jersey o certi sobborghi inglesi, do­ve fino a pochi decenni fa la «cultura subur­bana dell’alcol» era l’antidoto alla «cultura urbana della droga». E al termine di questo rocambolesco tour ci apparirà lampante che lo scontro di civiltà tra Oriente e Occi­dente altro non è che il riflesso di due ap­procci diametralmente opposti alla vita – temperanza e sregolatezza, continenza e dissolutezza, con i loro paladini, astemi e bevitori, per sempre affiancati «in uno spi­rito di reciproca incomprensione». Lawrence Osborne, “Santi e bevitori - Un viaggio alcolico in terre astemie” Traduzione di Mariagrazia Gini #LawrenceOsborne #SantieBevitori #adelphiedizioni
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6 giorni fa