Alessandra Martin

@alemartin_yoga

“Whatever is here is elsewhere. Whatever is not here will be nowhere” Yoga student&teacher (1.000h) Co-founder @krama_milano & @xu.project
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Che stile di yoga pratichi? I miei maestri rispondevano sempre con una risata a questa domanda. Siamo ormai abituati ad avere tanti nomi nello yoga quanti i gusti del gelato o delle capsule Nespresso. Ma lo yoga è uno ed è quello che riguarda l’essere umano che cerca di comprendere le cause del suo dolore e l’essenza più profonda del suo esistere. Trovare forme e funzioni diverse è necessario per vivere, dare nomi alle cose (nama-rupa) serve a distinguerle e a comunicare: “Il tao produce l’uno, l’uno produce il due, il due produce il tre, il tre produce i diecimila esseri”, così già dal Tao Te Ching. Noi stessi siamo composti di diversi strati, più grossolani, liquidi, ossei, cartilaginei, ed altri più sottili, elettrici e invisibili come le emozioni che ci attraversano. Imparare linguaggi, metodi e tecniche è essenziale per la vita: “Tutto contribuisce al tutto. L’algebra si applica alle nubi; l’irradiazione dell’astro è proficua alla rosa; nessun pensatore oserebbe dire che il profumo del biancospino sia inutile alle costellazioni. [...] dove finisce il telescopio incomincia in microscopio; quale dei due ha la vista più forte? Scegliere. Una muffa è una pleiade di fiori e una nebulosa un formicaio di stelle” . Le parole di uno dei miei capitoli preferiti de I miserabili di Hugo mi ricorda che rifuggire le forme per paura di esserne ingabbiati è tanto pericoloso quanto credere che le forme che rivestiamo siano dogmi inscalfibili. E’ un po’ come quando impariamo a parlare e a scrivere. Gli aggettivi ci permettono di descrivere dettagli dei nostri mondi interiori ed esteriori; allo stesso tempo, quando ci concentriamo troppo sulla giustezza di parole, grammatica e sintassi, dimentichiamo che esistono tantissimi idiomi e modi di comunicare o, peggio, dimentichiamo il perchè o il senso di quello che stiamo cercando di dire. In fondo, anche yoga è solo un nome. Lo yoga che cerco di praticare è quello di Shiva nella sua forma danzante all’interno del cerchio di fuoco: recito i miei molti ruoli con la verità di essere ciascuno e nessuno di essi. E questo mi fa sempre sorridere.
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1 mese fa
Da quando ho iniziato a praticare, la parola “guarigione” è entrata prepotente nel mio vocabolario. Credo però di averla sempre male interpretata. Guarigione era una specie di terra promessa, una speranza, il luogo felice a cui tendere. Pensavo che, una volta guarita, sarei stata diversa, non avrei commesso più gli stessi errori -fisici o mentali-, e che tutte le fatiche sarebbero finalmente scomparse. Ho sempre odiato i sintomi, del corpo e della mente, che mi facevano sentire diversa, sbagliata, lottando perchè sparissero dal mio orizzonte. Ciò che non vedevo è che i sintomi, le reazioni che il mio corpo e mente sceglievano di portare in scena erano comunque il mio personale modo di esistere. Ho scoperto che guarigione, nel suo significato originario, significa proteggere, difendere, prendersi cura. E’ qualcosa che riguarda più il processo che il risultato da ottenere. I miei nemici di una vita sono ora diventati dei confidenti: mi rivolgo a quelle odiate reazioni per saperne di più di me, della mia storia e delle memorie incistate tra muscoli, ossa e impulsi elettrici del mio cervello. E così, spontaneamente, la guerra è cessata. E il dolore quasi svanito. Nella Bhagavad Gita si dà quest’ulteriore definizione di yoga: “Duḥkha saṃyoga viyoga yoga” (BG VI.23), cioè “lo yoga è la separazione dall’abitudine di associarsi alla sofferenza” o “è lo scioglimento dell’unione con la sofferenza”. Grazie @dema.embody per questo intenso anno di formazione.
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2 mesi fa
Nessuno si salva da solo. Ognuno si salva da solo.
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5 mesi fa
Se sciolgo 100 grammi di sale in un bicchiere d'acqua, l'acqua sarà molto salata. Se sciolgo la stessa quantità di sale in una grossa bacinella, il sapore dell'acqua cambierà e il sale si percepirà appena. Come per il sale così per duhkha, il dolore. Non si tratta di respingerlo, ma solo di scioglierlo in un contenitore più ampio, allargando i propri orizzonti. Samdhi, tema su cui ci siamo confrontati al ritiro, vuol dire anche luogo di incontro. Io non lo so quale sia il luogo di incontro giusto tra le persone: siamo tanti, diversi, ciascuno con il proprio linguaggio. Forse è difficile trovarlo con le parole, ma, quando resto in silenzio, so che esiste e il mio orizzonte si allarga.
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7 mesi fa
Adulto? Mai—mai, come l’esistenza che non matura—resta sempre acerba, di splendido giorno in splendido giorno— io non posso che restare fedele alla stupenda monotonia del mistero. Ecco perché, nella felicità, non mi sono abbandonato—ecco perché, nell’ansia delle mie colpe non ho mai toccato un rimorso vero. Pari, sempre pari con l’inespresso, all’origine di quello che io sono. Pier Paolo Pasolini
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9 mesi fa
heyaṃ duḥkham-anāgatam (YS, II.16) La sofferenza futura deve essere evitata. Uno dei sutra preferiti da Krishnamacharya, è senz'altro il parametro più importante con cui misuro la bontà della mia pratica. Ogni volta che la sofferenza -fisica o mentale- aumenta, mi osservo e modifico la mia pratica, siano asana, pranayama, osservazione, meditazione, studio applicato dei sutra o altri testi, o la combinazione di più di queste tecniche. Con gli anni è stato sempre più chiaro che la mia sofferenza non può essere slegata dalla sofferenza degli altri, persone, animali, piante, fiori, terra, acqua e tutte le cose che pensiamo non ci riguardino. Anche la sofferenza della mia casa o degli oggetti che ho, quando non me ne occupo con cura. E così, alla modifica della mia pratica corrisponde anche la modifica delle relazioni -affettive, lavorative- degli ambienti che frequento, delle abitudini (o almeno il tentativo di modificarle). È bene non cadere nell'equivoco che si debba scappare dal dolore, quello è parte ineludibile della nostra esistenza; si tratta invece di ridurre quella resistenza sofferente alla vita così com’è, il dolore che mi auto-provoco. Anzi, spesso è proprio la fuga dagli abissi più neri del nostro essere che causa la vera sofferenza. Quelle valli buie lastricano la nostra vita tanto quanto la Fossa delle Marianne è pavimento dell'Oceano Pacifico. Negli scorsi mesi, in una cascina fuori Milano, Yunior mi spiegava perchè i nostri terreni sono morti e di conseguenza il cibo che mangiamo è privo di nutrienti; in Australia ho avuto la fortuna di conoscere Geoff Lawton e studiare con lui permacultura, perchè non posso più ignorare la sofferenza ampia in cui sono immersa e di cui sono un pezzo di causa. Geoff spiegava che l'area più ricca in natura -in termini di flora, fauna e scambi tra forme di vita- è la soglia. (Continua nei commenti)
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10 mesi fa
Una storia zen racconta di un cucciolo di tigre rimasto orfano perché la madre venne uccisa dagli abitanti di un villaggio che temevano le sue incursioni nelle greggi. Il tigrotto fu adottato da un pastore e accolto tra le sue pecore, che lo nutrirono con il proprio latte. Così il piccolo felino cresceva timido e impaurito, brucando l’erba come una pecora, belando e credendo di vivere tra i suoi simili. Un giorno arrivò la notizia che un’altra tigre si avvicinava al villaggio per cacciare le greggi. Quando la tigre attaccò le pecore, riconobbe il cucciolo tra loro e, rinunciando al suo pasto, afferrò il tigrotto portandolo nella sua tana. Nella foresta, la tigre cercò di spiegare al piccolo la sua vera natura, ma quello belava terrorizzato e cercava di fuggire al villaggio. Allora la tigre lo portò al fiume e qui lo costrinse a specchiarsi nell’acqua: il felino indietreggiò terrorizzato perché nell’acqua aveva visto non una, ma due tigri maestose. Quindi il tigrotto si osservò con più attenzione e si chiese: “Chi sono veramente io?” La tigre anziana lo riportò alla tana e gli offrì della carne fresca, ma il tigrotto non riusciva a cibarsene, perché era abituato al sapore dell’erba. Superata la ripugnanza iniziale, il cucciolo assaggiò la carne. Immediatamente quel sapore ridestò la sua vera natura, e finì il pasto con una bramosìa irresistibile che proveniva dal suo essere più profondo che tornava alla luce. Alla fine del pasto, il tigrotto emise un ruggito potente, che spezzò definitivamente l’illusione che lui fosse una pecora belante. È una metafora così vicina al nostro essere abituati a fingere per sentirci accettati dal gregge: fingere fino a non sapere più cos’è finzione e quali invece i nostri desideri più profondi. Fino a non sapere più in cosa risiede la nostra umanità. (Continua nei commenti)
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1 anno fa
La pratica è un rituale. E, come in tutti i rituali, la ripetizione toglie lo scopo e lascia la bellezza. La pratica ritualizza tutte le nostre azioni quotidiane: prendo una forma, la incarno per cinque respiri o poco più, passo alla forma successiva, che faccio mia dalla punta dei piedi ai margini della bocca. E così via fino al momento in cui le forme spariscono, le azioni si arrestano, i respiri si quietano. Entro in uno stato in cui non c’è più confine tra interno ed esterno, la pelle si assottiglia fino a sparire, il volto non ha più espressione, non so più nemmeno chi sono e mi rendo conto che forse non l’ho mai saputo. Savasana. Si dice che Shakti danzi senza freni sul cadavere di Shiva: senza il ballo della creazione la coscienza resterebbe inanimata. Siamo lo sfondo e siamo le forme che si stagliano su di esso. Quando pensiamo solo alle forme, dimenticando lo sfondo, affiorano le paure, e siamo un fascio di ansia mescolata a senso di colpa. Tutti soli e diversi tra noi. Ma se pensiamo anche allo sfondo, il senso di separazione tra le forme non ha più senso come non ha senso distinguere l’onda dall’oceano. Pratico per celebrare il tempo che ho a disposizione fino a che tutto si dissolverà.
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1 anno fa
L’altro giorno un astrofisico mi parlava di velocità della luce, distanza delle stelle da noi e del fatto che la luce delle stelle può impiegare centinaia o anche migliaia di anni per coprire lo spazio che ci separa da esse. La Stella Polare, per esempio, si trova a trecento anni luce di distanza, e la sua luce impiega quindi trecento anni per giungere fino a noi. Sorridendo, diceva che per noi è strano pensare che una stella che vediamo stanotte nel cielo non sia davvero così come la vediamo -e che magari sia già spenta- per colpa di whatsapp e di tutta l’immediatezza a cui siamo abituati: non riceviamo più lettere e cartoline e non sappiamo più cosa vuol dire ricevere un messaggio dal passato. È un po’ la stessa cosa anche per noi. Il tempo che trascorre tra un cambiamento interno e la sua manifestazione può essere di giorni, settimane, a volte anni. Dovremmo avere più clemenza e sapere che chi abbiamo oggi sotto il naso è l’esito di un processo sviluppato molti anni prima. Lo yoga non chiede di fidarsi di un guru, di una persona, di un’icona, non chiede di fidarci nemmeno di noi stessi; chiede fiducia verso la vita. E questa fiducia è faticosa perchè noi pensiamo di avere in mano le redini per tutto. Ma se non so nemmeno cosa c’è dietro la luce che oggi rifletto, come posso pensare di avere qualche controllo sugli altri o sulle cose esterne a me? So solo che non c’è molta differenza tra me e Proxima Centauri.
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1 anno fa
E’ stato un anno intenso, nel bene e nel male, che mi ha fatto cambiare spontaneamente e profondamente la pratica per adattarla al mio sentire. Krama è anche questo, accompagnare ogni istante della nostra vita con le azioni e le parole più adatte. Gli asana erano sirsasana, sarvangasana, preceduti da qualche saluto al sole e seguiti da maha mudra senza kumbhaka, perchè anche la sospensione del respiro era troppo per me. Nessuna particolare tecnica di pranayama o di meditazione: solo seduta o stesa in osservazione -del respiro, dei miei pensieri, delle fibrillazioni tra muscoli- o ancor più spesso in uno stato di resa. Ad agosto ho reintrodotto qualche asana e transizione in più: la maggior parte dei movimenti, come prevedibile, era diventata molto difficile, il loto impossibile da prendere. E così ho praticato Titiksha, la pazienza. Da quando pratico yoga non mi è mai importato granchè delle posizioni, ma sapevo che c’era qualcos’altro dietro quella rigidità e volevo esplorarlo. Mi sono dedicata a movimenti e transizioni che solitamente mi aiutano a sentire più in profondità l’area pelvica, ho fatto pranayama, ho meditato e praticato alcune mudra delle mani. Poi ho smesso di fare qualcosa con uno scopo e ho continuato a praticare l’osservazione delle mie paure, che si manifestano anche nella speranza che da una certa pratica sorga un effetto immediato o nel desiderio che le cose “si aggiustino”. Sirsasana anni fa mi ha insegnato ad avere un rapporto diverso con la paura e ad avere sempre più curiosità per l’ignoto. Oggi, dal nulla, il loto. Nelle ultime due settimane gli avvenimenti esterni mi hanno immerso tutta la faccia nel catino delle mie resistenze e paure, che via via diventano sempre più arcaiche. Sono ancora fradicia ma ne è sorta una certa morbidezza nel corpo. [continua nei commenti]
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1 anno fa
Quando finisce un amore, quando smetto di fare quello che ho sempre fatto, quando non ho idea di cosa succederà domani se introduco anche solo un piccolo cambiamento nella mia vita, quando i miei genitori mi dicono che sbaglio, quando i miei figli mi dicono che sbaglio, quando non so il perché. Esseri fragili, nati con la consapevolezza della nostra fragilità. Fare i conti con la nostra paura profonda di non esistere, di essere insignificanti e di non poter comunicare agli altri quanto ci sentiamo soli. Fare i conti con il fatto che, a volte, sentirsi soli diventa lo schermo per sentirsi speciali. Ed è lì che continuo a domandare, agli altri che mi hanno preceduto, alla fiducia con cui le piante si seccano, e alla sicurezza con cui l’acqua sa di poter essere anche ghiaccio e vapore. E allora sorrido al pensiero di quante morti abbiamo già affrontato nella nostra piccola esistenza e di quanto poco ci guardiamo negli occhi per ricordarcelo e provo a godermi lo spettacolo di cui non conosco nè la fine nè l’inizio. * Chandra Livia Candiani in Racconti Spirituali; Suzuki-Roshi, La via dell’acqua che scorre; John Donne, Meditazione XVII
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1 anno fa
Qualche giorno fa ho percorso il tragitto che faccio sempre per andare da casa a scuola, ricordandomi a un certo punto che c’è un’altra strada molto meno trafficata e veloce che non faccio mai: sono talmente abituata a percorrere l’altra da non aver mai preso in considerazione quella più breve, per quanto la conoscessi. Un giorno ci succede qualcosa -un evento traumatico, un lutto, uno schiaffo, fisico o metaforico- e noi reagiamo in un certo modo: quella reazione si sedimenta, diventa un solco, che nei giorni, nei mesi, negli anni, si fa sempre più profondo. Diventa la strada che percorriamo sempre anche se ce ne sono di più brevi e piacevoli. Restiamo invischiati in circoli viziosi anche dolorosi, solo perchè siamo abituati così. Basta guardarci in faccia, basta scendere per le strade di Milano per contare le vittime dell’abitudine e della difficoltà a percorrere un solco diverso. C’è una canzone in cui Marracash usa un’immagine molto potente: “fotto con la depressione, ne conosco i nei”. L’abitudine ci porta a creare relazioni -in primis quella con noi stessi- in cui ci avvinghiamo al dolore a tal punto da trattarlo come un vecchio amante, uno di quelli più faticosi da lasciare. E succede perché quello è il mio solco già tracciato, che magari ho impiegato molto tempo a scavare e che ormai conosco anche nei minimi dettagli, riuscendo a mapparne anche i nei. Il sistema descritto negli Yoga Sutra parla proprio di questo ciclo nocivo: vasana e samskara, che si manifestano in superficie sotto forma di stati della mente (vritti) e conseguenti azioni (karman) sono le impressioni latenti all’origine dei nostri solchi (continua nei commenti)
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1 anno fa