Lo avevo comprato il giorno stesso dell’uscita, nella libreria di Citylife. Ma dopo aver letto le prime pagine lo avevo messo in pausa, tenendolo in bella vista sul comodino, come si fa con le cose che prima o poi sai di dover affrontare. Oggi l’ho ripreso in mano, e l’ho divorato in un paio d’ore. E ho capito perché “Ogni prigione è un’isola” è rimasto lì, per un bel po’ di tempo, ad aspettare che lo scegliessi, che gli dedicassi tempo e attenzione.
La verità è che il carcere lo odiano tutti. Lo scrive la stessa Bignardi: «Alcuni amano il carcere degli altri, per così dire». Farci i conti, insomma, è una scelta. E non può essere né un discorso intriso di retorica (come emerge nel libro, della retorica nessuno se ne fa nulla, soprattutto in un luogo come quello), né un pallino per chi ha una pur sincera spinta caritatevole. I discorsi sul carcere sono sempre meno, non fanno comodo a nessuno, e chiunque non abbia rapporti diretti con esso si sente (ingiustamente) estraneo a ogni tipo di problematica.
Io ho avuto modo di entrare solo una volta in un carcere, a San Vittore, per una conferenza stampa che Ghali aveva organizzato, coinvolgendo alcuni detenuti. Quell’esperienza mi aveva interrogato molto. E in quel momento mi ero promesso di tornarci: volevo dare un mio contributo come volontario. Sapevo che sarebbe stato un dare e un ricevere. Questo, però, non è mai avvenuto; per la mia nota pigrizia, certo. Ma anche per paura, perché tutto ciò che ha a che fare con il carcere parla anche di noi, di quel male di cui nessuno può dirsi totalmente estraneo.
Questo libro restituisce tutta l’umanità che Daria Bignardi ha incontrato all’interno delle carceri, in Italia e non solo. Non è un saggio, ma spinge tutti a interrogarsi, e lo fa con una vocazione politica, nel senso più nobile del termine. Spinge tutti ad allenare l’empatia, che sia nei confronti del bene o del male, della giustizia abbracciata o dell’ingiustizia subita.
#OgniPrigioneÈUnIsola @dariabig