Valentina Colosimo

@valentina_colosimo

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Maggio
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1 mese fa
Chi sono queste persone? «Spesso sono gli insospettabili: nel cinema i registi, le persone potenti, celebrate, riconosciute, stimate. Non si tratta di mele marce, non si tratta di maniaci: parliamo di un sistema di potere, del prodotto di una cultura. Abusi che non trovano giustizia, ed è terribile pensare che dopo un po’ di rumore, tornerà tutto come prima». È andata così? «Oggi viviamo un contraccolpo serissimo. Ai tempi la speranza era che le cose cambiassero davvero». Dissenso Comune è stato un fallimento? «Sì. E me lo assumo politicamente». Il collettivo si è sciolto? «Neanche, non ce lo siamo dette, ma nel tempo non siamo rimaste unite pur essendo tante. Eppure c’era una grande partecipazione, una coscienza comune». Lei ha mai subito molestie? «Certo, come il 90 per cento delle donne». Non lo ha mai raccontato. Com’è andata? «È successo diverse volte, quando ero giovane. Molestie fisiche e verbali». Come ha reagito? «Oggi avrei tutt’altra capacità di reazione, e sono in un’altra posizione, non ci sarebbe più squilibrio di potere, ma all’epoca, la consapevolezza era diversa, in me e anche forse nel contesto culturale. Il tratto che accomuna spesso queste situazioni è che non percepisci subito quel comportamento come un abuso, anche se lo è e fino in fondo. È una cosa di cui l’abusante si approfitta. Quando le altre hanno cominciato a parlare, mi sono riconosciuta nelle loro parole, nelle loro storie. Sono situazioni più ambigue rispetto a essere aggredite in un vicolo da uno sconosciuto. È raggelante». Ho parlato con Jasmine Trinca per la copertina di @vanityfairitalia 🔗 L’intervista al link in bio #jasminetrinca #metoo #vfentertainment
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1 mese fa
Tanti auguri Maria, 9 anni e pochissime foto in cui sorridi (non è cool). Che fortuna che ci sei.
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2 mesi fa
Come funziona il cinema in Iran potrebbe essere il soggetto di un film da realizzare ovviamente solo fuori dal Paese. Se non fosse tutto tragicamente vero, farebbe anche ridere. «Prima di tutto devi avere i permessi: la sceneggiatura deve essere approvata dal ministero. Se hai l’ok, sul set vengono persone del regime a controllare ed è un disastro: per esempio, se stai girando una scena per strada e sullo sfondo spunta una donna con il velo messo male, si deve rifare tutto. E le regole. Ce ne sono un sacco. Il protagonista deve avere un bel nome musulmano, l’ideale è Mohammed o Alì. I cattivi non si possono mai chiamare così, meglio nomi ebrei tipo David. Le donne non possono correre, altrimenti si vedrebbero i seni che fanno su e giù. Devono andare a dormire con il velo in testa, ma ci sono anche delle differenze: nei film per il cinema l’hijab può scoprire il mento, in tv assolutamente no. Niente leccalecca o altri oggetti allusivi. Ma non è finita qui: una volta che il film è montato devi portarlo al ministero e in una sala c’è un gruppo di persone che lo guardano e se ne escono con le idee più assurde. “Quella mucca in mezzo alla strada rappresenta noi?”, mi hanno chiesto una volta. Ovviamente no. Ma magari ti fanno togliere interi pezzi». A fornirci lo specchietto delle regole del sistema del cinema iraniano è il «freedom fighter» Ashkan Khatibi, seduto al tavolo di un ristorante di Milano, dove vive da otto mesi dopo essere scappato dal regime che lo aveva preso di mira. Qui, al teatro Franco Parenti, dal 23 aprile porta in scena uno spettacolo che ha scritto e che dirige, Le mie tre sorelle. Quarantaquattro anni, Ashkan non è un semplice attore e regista iraniano: in patria è uno dei più famosi del panorama cinematografico e televisivo, protagonista di Khatoon. Once Upon a Time in Iran, serie tv ultrapopolare nel Paese. L’intervista ad @ashkan al link in bio.
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2 mesi fa
«Mi sono presentata senza cofana e senza make-up perché non volevo essere una imitazione di Amy: volevo incarnarla. E l’essenza di una persona è negli occhi, nel modo in cui occupa lo spazio, nella connessione con gli altri, in qualcosa di impalpabile». Ho parlato con @marisaabela_ che interpreta Amy Winehouse nel biopic Back to Black. Link in bio
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2 mesi fa
Buon compleanno al ragazzo geniale Be happy @marcodrago.67
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3 mesi fa
Campionesse di selfie brutti since 2005 ma sempre tanto cuore @ilnany
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3 mesi fa
Dov’è finita la comica? Dove sono finite la Miss Italia scema, la militante di Casa Pound che «allora le foibe?», la perfida contessina in triciclo? Portarle tutte a teatro e confezionare uno spettacolo per il grande pubblico sarebbe stata una mossa ovvia: «Me lo chiedono da vent’anni». Ma Caterina Guzzanti ha sempre detto di no, che non voleva, un po’ «perché mi sembrava di barare», un po’ «perché a rifare sempre la stessa cosa poi mi annoio». E così, forse per il gusto di sparigliare le carte, forse per dare un nuovo colore a Guzzanti, pesantissimo cognome della comicità italiana, forse per l’urgenza di raccontare qualcosa di suo, ha scritto per la prima volta uno spettacolo teatrale di cui firma anche la regia, in cui prende a schiaffi un po’ tutti, uomini e donne, e fa ridere e un po’ piangere e riflettere. Si intitola Secondo lei, il tour è partito da poco. È la storia di una coppia all’apparenza perfetta, un uomo e una donna che si incontrano spostando sedie e unendo tavoli in un locale, che però si trovano immobili di fronte a un problema che è uno dei tabù più rimossi di oggi: l’impotenza maschile. Un problema su cui si innesta un inferno di incomunicabilità, rivendicazioni, vendette, ma soprattutto la resistenza di fronte all’infelicità. Il punto di vista è quello della donna, che critica ma non fa mai autocritica, accetta passivamente e poi si vendica. «Il teatro deve parlare dei temi del momento, per me ha senso solo se è all’avanguardia», dice Caterina. L’intervista a @caterguz al link in bio.
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3 mesi fa
L'ultimo giorno di set, Ema Stokholma ha organizzato una festa. Lei era alla consolle, la troupe ballava e Carlo Verdone faceva il cubista. «Quando ho fatto partire One More Time dei Daft Punk, Carlo è impazzito, si è scatenato», racconta. Ed è bravo a ballare? Ride: «È Carlo Verdone». Il set era quello della serie Vita da Carlo 3, in cui Ema interpreta se stessa, o meglio «una versione più pazzerella di me», cioè «una totalmente ingestibile, che si lascia guidare solo dalle sue emozioni e manda tutto a monte». In realtà, non una persona così lontana da lei, o meglio da quella che è stata in passato, quando faceva la modella «ed ero sempre in ritardo, a volte sparivo per giorni, non avevo regole, ho bruciato un sacco di contatti per questo mio modo di fare». La conclusione è che «invece di chiedere scusa, ho cambiato lavoro». Ride. Poi la sintesi: «Ero pazza». Una parola che torna spesso nel flusso di parole di Ema Stokholma, un affascinante flow di italiano condito dalla erre moscia francese e infarcito di termini e modi di dire romani che messi insieme creano una specie di lingua nuova, tutta sua. «Pazza» lo è stata in passato dice, ma lo è anche oggi, in senso buono: «Il complimento più bello che mi sono sentita fare su Instagram è: ma tu sei scoppiata! Perché a me non interessa sentirmi dire che sono bella o brava, ma che faccio ridere. È la cosa che mi piace di più: far ridere gli altri. E in radio, a Radio2 ho trovato la mia dimensione. E la mia famiglia». Ho intervistato Ema Stokholma per la cover digitale di questa settimana. Link in bio
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4 mesi fa